È stato il maestro indiscusso del cinema americano, sebbene di americano non
avesse nulla, poiché nacque a Berlino nel 1892.
Di famiglia ebraica piccolo borghese, il padre, Simon, era sarto per signora, il
piccolo Ernst vive nella capitale tedesca i primi del Novecento influenzandosi
di varie correnti letterarie, politiche, sociali e religiose; non a caso Berlino
a quel tempo cercava di gareggiare e, talvolta, superare le capitali europee per
forza intellettiva e culturale.
Lubitsch iniziò a sedici anni (contro il volere del padre) la carriera dapprima
come attore di teatro a Berlino (la mattina continuava a lavorare nella bottega
paterna), poi passò al cinema come attrezzista, finchè un giorno non incontrò il
regista Max Reinhardt, il quale gli offrì delle parti in alcuni suoi film. La
popolarità di Ernst arrivò quando interpretò il personaggio dell’ebreo Meyer in
brevi comiche, scritte e poi successivamente dirette dallo stesso ‘attore’. Il
successo internazionale lo ebbe quando iniziò a realizzare solo come regista
film in costume come “Madame Dubarry” (id.) 1919, “Anna Bolena” (Anna Boleyn)
del 1920, “Theonis la donna dei faraoni” (Das Weib des Pharao), 1922.
Influenzato dalla scuola e dal costume italiano questi film ne risentivano
moltissimo, era storie che ricalcavano la vicenda del romanzo , ma mescolava con
maestria ironia e realismo, scegliendo poi attori che piaceva a lui come Emil
Jennings, Ossi Oswalda e in particolar modo Pola Negri. Nel 1922 a Hollywood
l’attrice Mary Pickford, reduce da grandi successi commerciali, ebbe il
desiderio di realizzare un film con la direzione di Lubitsch, il quale dopo
mille ripensamenti decise di andare negli Stati Uniti. Il film che fecero
s’intitolava “Rosita” (id.) ed uscì nel 1923; la lavorazione fu difficile,
evidenti i contrasti di ordine professionale tra l’attrice americana e il
regista tedesco, ma alla fine quello che contò fu il risultato al botteghino
molto lusinghiero tanto che la Warner Bros decise di fargli firmare un contratto
di cinque film. Convintosi a rimanere, il regista si chiese subito quali
potevano essere i soggetti dei suoi futuri film e comprese che se avesse voluto
ottenere dei successi avrebbe dovuto realizzare dei film tipicamente americani,
ma con un ambientazione europea raffinata ed elegante. A Hollywood ogni casa di
produzione aveva il suo marchio di fabbrica e questo era impresso in special
modo negli anni Venti e Trenta, tutti dovevano stare a quello o quei stili
voluti dai produttori. La regola aveva un’eccezione: Ernst Lubisch, che vantava
carta bianca in ogni aspetto produttivo, poiché sceglieva gli attori più adatti,
imponeva le trame che a lui piaceva di più, non subiva tagli nelle scene durante
la lavorazione. I primi muti girati negli Stati Uniti come “Matrimonio in
quattro” (The Mariage Circle), 1924, “La zarina” (Forbidden Paradise), 1924 e
“Il principe studente” del 1927 evidenziarono che Lubitsch non era più un
regista tedesco, ma americano a tutti gli effetti. Durante il periodo muto non
gli piacevano le didascalie e i dialoghi, così spesso ricorreva a scene
interamente mute come ne “Il ventaglio di Lady Windermere” (Lady Windermare’s
Fan), 1925, nel quale non impose una sola parola, a dimostrare che le parole
servono alle volte poco nel cinema. Ma quando ebbe l’occasione di utilizzare i
dialoghi e si passò dal muto al sonoro espresse tutta la sua abilità
nell’utilizzarle.
Nelle sue storie egli metteva come soggetti dei suoi film due elementi
importanti per la classe americana: sesso e denaro, che gli permettevano di
farsi comprendere da tutti nei suoi racconti cinematografici. E proprio in
questi due elementi che nasce il “tocco alla Lubitsch” che lo renderà più che
famoso, immortale, grazie a questo gioco di sottili allusioni, elegante e
ironica satira sulle debolezze della società e i rapporti tra i sessi, il tutto
mischiato con un sapiente stile europeo. Diceva Geroge Bernard Shaw: “Se vuoi
dire la verità alla gente, è meglio farlo ridendo, altrimenti ti ammazza” e così
il regista tedesco realizzava i suoi film e proprio in “Il principe studente”,
il primo film parlato, ridendo disse la verità sulla dignità regale, in
“Montecarlo” (id.), 1930, sull’amore e sul denaro in “Mancia competente” (Trouble
in Paradise), 1932, sul denaro nell’unico episodio diretto da lui in “Se avessi
un milione” (If I Had a Million), 1932.
Il successo cresceva sempre di più tanto che alla Paramount nel 1929 rimasero
così colpiti dal travolgente successo commerciale che gli affidarono oltre che
la regia anche la produzione cosa che a quel tempo era inaudita per chi
governava il mercato cinematografico.
L’apice della carriera fu nei film sonori come “Il principe consorte” nel 1929,
“Montecarlo” (id.) 1930, “L’allegro tenente” (The Smiling Lieutenant) 1931, in
“Mancia competente” 1932 e Ninotchka del 1939. In questi film sopra citati nasce
“Il tocco alla Lubitsch”, ma meglio di ogni spiegazione lo diede il maestro
tedesco raccontando quando nel 1918 ebbe lo spunto a Berlino, devastata dalla
guerra, un uomo ormai sfinito dalle privazioni del periodo decise di suicidarsi,
comprò la corda per impiccarsi. Ma come tutte le cose di quel tempo la corda era
fatta di materiali scadenti e si spezzò non appena messa la collo. Allora l’uomo
capì che era un segno del destino che lo invitava a vivere così entrò in un bar
a prende un caffè, ma essendo anch’esso di qualità scadente, si ammalò e morì.
Disse Lubitsch: “Questa storiella mi fece cogliere il potere drammatico
dell’ironia e lo sperimentai nei miei primi film girati a Berlino”.
L’attenzione per la sceneggiatura era quasi maniacale, serviva senza ombra di
dubbio a creare quest’effetto che solo Lubitsch era in grado di fare, tanto che
lo sceneggiatore Samson Raphaelson, autore di Mancia competente” e “Scrivimi
fermo posta” (The Shop Around The Corner) del 1940 e di altri suoi film, alla
fine delle riprese vedendo il film non riusciva più a capire quale fossero i
suoi dialoghi e quali quelli del regista, tanta era l’abilità anche nel
raccontare con le scene.
Rimangono ancor’oggi deliziose alcune scene realizzate sempre con grande gusto e
raffinatezza, come nei film “Partita a quattro” (Desing for Living) del 1933,
con dei giovanissimi Gary Cooper, Fredric March e Miriam Hopkins, “La vedova
allegra” (The Merry Widow) del 1934 con un divertentissimo Maurice Chevalier,
“L’ottava moglie di Barbablue” (Bluebeard’s Eight Wife) 1938 con Claudette
Colbert e ancora Gary Cooper.
Nonostante gli anni Trenta siano i suoi migliori anni, quelli che lo videro
trionfare come regista e soprattutto evidenziare al pubblico che lo riteneva un
eccellente maestro, gli anni Quaranta lo videro impegnato in egual misura
sebbene la sua vita si concludesse troppo presto. Nel 1942 realizzò “Vogliamo
vivere” (To Be or Not to Be), brillante parodia antinazista con Jack Benny e
Carol Lombard, qui al suo ultimo film. Il suo primo film a colori fu “Il cielo
può attendere” (Heaven Can Wait) 1943 con Gene Tierney e Don Ameche, divertente
commedia con risvolti ironici. “Fra le tue braccia” (Cluny Brown) 1946 con
Charles Boyer e Jennifer Jones tutta la storia si svolgeva in Inghilterra e
prendeva di mira la mentalità inglese. Nel 1947 Lubitsch iniziò le riprese del
film “Signora in ermellino” (That Lady Ermine) ma dei gravi problemi di cuore lo
portarono a non finire questo film (lo concluse Otto Preminger) e di lì a poco
all’età di 56 anni morì dopo il sesto attacco di cuore.
Molti registi furono influenzati dal suo stile e come ebbe a dire il regista
Joseph L.Mankiewicz: “Nel campo della commedia sofisticata, Lubitsch non conobbe
rivali”. Il suo più grande allevio fu Billy Wilder che lo ricordò così: “Mi
ricordo ancora il giorno del funerale. Dopo la triste cerimonia, William Wyler e
io ci stavamo dirigendo in silenzio verso la nostra automobile. Allora io dissi,
tanto per rompere il silenzio: “Niente più Lubitsch”. Al che Wyler replicò:
“Peggio. Niente più film di Lubitsch”. Come aveva ragione. Da allora, tutti noi
che lo veneravamo – Leo McCarey, Preston Sturges, William Wyler e io – abbiamo
cercato di scoprire il segreto del ‘tocco alla Lubitsch’. Niente da fare. Se
avevamo fortuna, a volte riuscivamo a inserire, qua e là, nei nostri film,
qualche metro di pellicola che sfuggevolmente scintillava come Lubitsch. Ma era
‘come’ Lubitsch, non ‘vero’ Lubitsch. La sua arte è perduta. Il più elegante dei
maghi dello schermo ha portato per sempre via con sé il proprio segreto!”.
G.R.
|