I suoi film si riconosco immediatamente, i suoi personaggi si incastrano perfettamente nei paesaggi americani, difficilmente si era vista una tecnica così perfetta e forse mai più la si rivedrà sul grande schermo.
Quando nacque si chiamava John Martin "Jack" Feeney, ed era uno dei quattordici figli di Sean O’Feeney, un immigrato irlandese. Si diplomò a 13 anni alla Portland High School, ma non riuscì ad essere ammesso all’Accademia di Annapolis, quindi decise di lavorare per un breve periodo in un negozio di calzature. Dopo poco si unì al fratello Francis che lavorava alla Universal come attore e regista. Ford iniziò dal basso come attrezzista, cascatore e aiuto regista. Nel 1917 debuttò come regista con il film a due rulli “The Tornado”, ne seguiranno oltre trenta, tutti sotto la Universal. La critica ebbe sempre parole molto lusinghiere nei confronti del precoce talento, piaceva il suo senso dell’azione e lo spirito allegro con cui descriveva le sue storie. Piacque molto anche al pubblico “The Outcasts of Poker Flat” del 1919 definito dalla critica “una sinfonia visiva” e fu ad esempio molto apprezzato “Straight Shooting” con il suo attore preferito Harry Carey in una storia avvincente per certi versi simile, anche come inquadrature, a “Sentieri Selvaggi” (The Searchers) del 1956.
Già negli anni Venti i primi film che John Ford girava presentavano la visione di una società romantica e melanconica, dove i cardini chiave erano la famiglia, la religione, la patria. Così nella maggior parte di quegli anni e dei suoi film c’era un richiamo alla patria e soprattutto allo spirito di frontiera del XIX secolo, che sarà poi uno dei suoi temi più cari.
I western muti come “Il cavalo d’acciaio (The Iron Horse) del 1924, i “I tre birbanti” (Three Bad Men) del 1926 erano gli esempi di questi ideali che il regista amava sin da ragazzo. Nelle sue prime opere emergeva il gusto per l’inquadratura, il saper mettere in scena “la scena” ideale che creava poi uno stile che verrà chiamato “stile alla John Ford”. Grazie anche al contributo del direttore della fotografia di quel primo periodi, George Schneiderman, il quale seppe conferire il pregio di una fotografia soffusa e brillante. Lo stesso regista ha sempre affermato di aver avuto un gusto per la composizione nelle inquadrature, un occhio speciale per la composizione tale da sembrare alle volte quadri di pittura.
Nel 1920 Ford passò alla Fox, anche qui diresse film western, ma questa volta con divi fissi, imposti dalla casa di produzione come Buck Jones e Tom Mix. Nel 1923 venne promosso a dirigere film più consistenti come “Ladro d’amore” (Cameo Kirby) con John Gilbert nei panni di un giocatore nei battelli fluviali. E fu qui che il regista decise di cambiare nome nei titoli di testa da Jack in John.
Nel periodo del cinema muto tre film come “il cavallo d’acciaio”, “I tre birbanti” e “L’ultima gioia”, mettono in scena i suoi temi cari di quel periodo come la fratellanza che nasce ad esempio nel costruire tutti insieme la ferrovia, la quale sarà poi il motivo di progresso civile, la religiosità quella cattolica di cui aveva un prondo rispetto e la famiglia intesa come prima società senza della quale non esisterebbe poi la vera Società in cui viviamo. Essendo di origine irlandese, Ford chiese alla Fox di ambientare alcuni film proprio nella sua terra. Così nacquero “The Shamrock Handicap” (1926) fatto con humour e aneddoti di quel paese e “La casa del boia” (Hangman’s House) del 1928 su alcuni disordini irlandesi mescolati con nebbie, lande, e paludi il tutto fatto con sole riprese in interni e ricostruzioni minuziose. Quando fu il momento di girare storie americane, mentre tutti i registi giravano in interni, egli volle essere il primo a narrare in esterni, con la luce del sole come il suo primo film d’ispirazione americana “Just Pals” del 1920, un racconto molto interessante anticipando i futuri film degli anni Trenta sulla trilogia deidcati alla provincia americana “Doctor Bull” del 1933, “Il giudice” (Judge Priest) 1934 e “Steamboat Round the Bend” del 1935.
Gli anni Trenta segnarono il culmine della sua carriera che non ebbe mai cali anche nei decenni successivi. Film come “Ombre Rosse” (Stagecoach) del 1939, “Alba di gloria” (Young Mr. Lincoln) furono decretati sin da subito dei veri e propri capolavori della cinematografia mondiale. Le ottime storie, le bellissime interpretazioni da una parte di John Wayne, che si consacrerà proprio con i film successivi diretti dallo stesso Ford, e dall’altra un giovane Henry Fonda perfetto nei panni di Lincoln giovane, permisero al regista di entrare nell’Olimpo dei direttori più quotati di Hollywood.
Durante la seconda guerra mondiale fu spedito sui campi di battaglia europei per girare documentari che facessero capire agli americani, rimasti a casa, cosa stesse succedendo. Il regista non si perse d’animo e iniziò a riprendere battaglie aeree, scontri di truppe di terra e di mare, campi di concentramento, rischiando la vita più di una volta, ma tornando in patria come un eroe premito con medaglie e 2 Oscar (“The Battle of Midway” del 1942 e “December 7th” del 1943)per i suoi meravigliosi documentari di guerra.
Ogni film rappresentava una sinfonia visiva che fosse in bianco e nero o a colori, Ford dirigeva con mano ferma ogni scena, orchestrava attori, comparse e scenografie naturali e ricostruite meglio di chiunque altro. Riusciva a far contemplare lo spettatore nella Natura americana, facendolo successivamente finire in una storia di epopea con assalti alle diligenze, scazzottate epiche, rivisitazioni storiche della storia americana contemporanea e non. In “Sfida infernale” (My Darling Clementine) mise ad Henry Fonda i panni del celebre sceriffo del West, Wyatt Earp, un uomo all’apparenza semplice, ma che al momento dell’azione riusciva a risolvere ogni problematica che la società gli proponeva.
Gli ‘eroi del west classico’ sono stati da sempre la motivazione principale a spingere Ford a mettersi dietro una macchina da presa e a raccontare quel tipo di vite. Molti registi negli anni Cinquanta hanno voluto imitarlo, ma i risultati non sono mai stati all’altezza delle aspettative come furono i suoi film. Gli altri registi mettevano in scena la tensione estrema di una vicenda, aggiungevano forti passioni come l’odio, la vendetta, la ribellione e il riscatto, ma non riuscivano ad imitarlo. Egli invece nel western faceva predominare un lungo viaggio verso una meta agognata, una carovana intesa come simbolo di peregrinazione, una diligenza che doveva attraversare il deserto facendo nascere delle vere e proprie epopee.
L’odissea del gruppo è un altro momento importante della narrazione fordiana, famiglie di contadini che abbandonano le terre ormai aride per quelle fertili come in “Furore” (The Grapes of Warth) del 1940, i soldati di cavalleria in missione nel “la trilogia della cavalleria”: “Il massacro di Fort Apache” (Fort Apache) del 1948, “I cavalieri del Nord-Ovest” (She Wore a Yellow Ribbon) 1949 e “Rio Bravo” (Rio Grande) del 1950.
La violenza per Ford non è mai necessaria, essa appare quando ormai non si può più fare nulla, un esempio su tutti è “I Cavalieri del Nord-Ovest” nel quale non si vede uccidere nessun indiano, mentre in altri film episodi di massacri o ferimenti sono molto rari. Ricorrere alla violenza non è mai motivato da semplici risentimenti personali, né è inteso come un mezzo di autoaffermazione o soddisfazione, semmai è un dovere o un’estrema risorsa.
Le comunità rappresentano il vero soggetto del narrare, non gli uomini visti singolarmente, i soldati che insieme portano la pace nel West, i pionieri che attraversano un intero paese per fondare nuovi Stati, gli abitanti che fondano nuove cittadine con nuovi ordinamenti sociali, dunque tutti coloro che hanno abilmente fatto e creato gli Stati Uniti d’America, i cui volti vennero dimenticati col tempo. Per il regista non è importante ‘costruire’ qualcosa, ma possedere un pezzo di terra, una casa, e tutto questo difendendosi dai nemici, dalle forze avverse della Natura che alle volte ostacolano più di un nemico.
Se si vedono numerosi suoi film e se si scorre la filmografia fordiana si potrà scoprire che la maggior parte della sua produzione contiene numerose sequenze di vita contadina, persino minatori e soldati sono richiamati a quel mondo tanto caro al regista.
Nella comunità certe ricorrenze servono a rinforzare i legami a fare nuove amicizie, spesso si trovano scene di feste da ballo con abbondanti bevute e anche funerali, momenti tipici di quel folklore fordiano che nessun altro regista è mai riuscito ad ottenere.
Il paesaggio è poi la grande scenografia artistica che la Natura offre e che Ford fa sua, deserto e cime montuose come la Monument Valley, così in “Sentieri selvaggi” (The Searchers) del 1956 si respira l’aria calda del deserto americano, il sole cocente, ma anche la neve, il freddo pungente che i personaggi vivono e fanno vivere.
L’emarginato è un soggetto che a Ford è sempre stato a cuore come nel film “Viaggio senza fine” (The Long Voyage Home) del 1940 dove un gruppo di marinai girano il mondo senza una meta e senza mai tornare a casa, o in “Sentieri selvaggi” le vicende degli indiani Comanches che non hanno un territorio e si spostano da una parte all’altra degli Stati Uniti. Emarginati sono anche intesi come persone che non vengono più accettate dalla loro gente, o ad esempio John Wayne in “Un uomo tranquillo (The Quiet Men) del 1952, che torna al suo paese d’origine dopo aver ucciso un uomo sul ring. Una classe sociale o una comunità indiana se oppressa, viene portata allo sradicamento sociale e quindi emarginata dalla società, ma può anche arrivare a estinguersi come nel film “Com’era verde la mia valle” (How Green Was My Valley) del 1941 in cui le lotte dei lavoratori portano alla disgregazione della società. In tutti questi esempi John Ford dà ai suoi personaggi una chance per sopravvivere ovvero rimanendo fedeli a se stessi e al proprio modo di pensare pagando a duro prezzo la loro sopravvivenza.
Ma con il passare del tempo i personaggi fordiani si sono invecchiati con il loro stesso autore e non si potrà mai paragonare ad esempio l’Henry Fonda, pioniere alla vigilia della guerra d’Indipendenza, di “La grande avventura” (Drums Along The Mohawk) del 1939 con Ramson Studdard (James Stewart) anziano e piangente, incerto e dubbioso nella sua tristezza.
Così tutte le sue opere hanno preso un significato diverso in ogni istante, ogni sua produzione è diventata un monumento nazione proprio come lo è la Monument Valley, ma una cosa è certa che John Ford è a tutt’oggi il massimo esponente di tutta la tradizione cinematografica americana ed è lui solo l’unico ad essere stato fedele interprete della storia del proprio paese sullo schermo.
G.R.
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