E’ l’attore che ha incarnato due generazioni di spettatori, ma è forse anche
quello più complicato da capire sul profilo professionale della sua carriera
cinematografica e della sua vita privata.
Nato nel 1924 ad Omaha (Nebraska), il padre, Marlon Brando, Sr, era un venditore
di carbonato di calcio e la moglie, Dorothy Pennebaker, faceva l’attrice, ma
artisticamente era in declino. Fin da bambino Marlon si dimostrava un ribelle di
nascita, caratteristica che conservò fino alla fine; aveva una sorella, Jocelyn
Brando, che si dedicò subito alla recitazione e un fratello Frannie che studiò
arte e divenne un artista televisivo. Marlon invece non andava d’accordo con il
padre, i caratteri contrapposti risultavano nocivi per entrambi e così decise di
abbandonare i regolari studi che lo avrebbero portato alla laurea per
intraprendere la carriera militare. Questa scelta nacque dal fatto che
l’irrecuperabile carattere sarebbe stato educato dalla disciplina e dal rigore
militare. E invece il giovane mal sopportava le rigide regole e la gerarchi
all’interno dell’Accademia, diventava dispettoso, ne combinava di tutti i colori
e venne espulso più volte. Trasferitosi a New York nel 1943, forse per stare con
la sorella che era lì per studiare recitazione, Marlon, che non aveva terminato
gli studi e non aveva intrapreso alcuno studio recitativo, per caso iniziò a
misurarsi con la tecnica teatrale ottenendo dei discreti successi. La cosa che
più gli piaceva era quel confrontarsi con il pubblico e con il mettersi in gioco
con sé stesso e mai avrebbe immaginato quale carriera lo aspettasse. Iniziò a
frequentare l’accademia di recitazione, l’Actor’s Studio che gli avrebbe fatto
comprendere il famoso “Metodo” (teorie nate e in voga in quegli anni importate
dal russo Kostantin Stanislavskij). Ma già la partecipazione a questa scuola fu
un punto di domanda, egli stesso disse che l’avrebbe frequentato per pochi
giorni, ma rimane il fatto che seppe e fu l’unico ad interpretare alla
perfezione usando il metodo dell’Actor’s Studio il personaggio di Stanley in “Un
tram che si chiama desiderio”. Centinaia di repliche ogni anno, folle che lo
andavano a vedere e applaudire, facendolo diventare un’icona di quegli anni e
permettendogli di crescere come persona a livello anche psicologico. Brando
ricercava attraverso la sua poderosa memoria di incarnare con le battute il
personaggio, diventare dunque Stanley e quindi incarnare psicologicamente in
quel momento la figura che recitava. Rifiutava lo stile classico degli attori
del tempo, metteva in pratica il Metodo e diceva sempre: “Devi rovesciare il tuo
Io! Se non lo fai non puoi recitare”. In breve divenne un leader non solo nel
campo recitativo, ma anche in quello sociale, aveva abbattuto l’idea che
l’essere di provincia non rendeva, ora finalmente era un’identità o meglio
un’icona generazionale. Molti spettatori della vecchia generazione rimasero
sconvolti nel vederlo recitare, non poteva essere un modello di stile, e i
giovani cercavano di imitarlo, ma niente da fare rimaneva solo lui sulla scena e
non c’era per nessuno. Da New York un invito irrinunciabile arrivò da Hollywood,
un biglietto di sola andata per cercare la gloria, ma anche un azzardo per il
tempo, nella mecca del cinema poteva creare una rivoluzione o finire così la sua
breve carriera. Arrivato tra i divi, lui fece quello che aveva sempre fatto
rimase se stesso, ovvero brillante, intraprendente, indifferente ai giudizi
sempre pronto alla battuta e con un fascino nuovo. La mecca offriva tanti
personaggi, forse tanti Stanley Kowalski, duri e cattivi, ma si stava
attraversando a Hollywood un momento di transizione, c’era il cinema e la
televisione, il pubblico tradiva il primo per quest’ultima novità e proprio il
cinematografo aveva bisogno di nuovi personaggi che attraessero le masse e
Brando ne divenne un icona del tempo. Iniziò la carriera cinematografica sotto
la 20th Century Fox, ma subito battagliò affinché ottenesse un’indipendenza di
libertà senza sanzioni o rotture di contratto per poter girare film con altre
case di produzioni e questo ottenne come grande novità. I produttori diffidavano
di lui, difficile era intervistarlo, promuoverlo pubblicitariamente era quasi
impossibile, ma era ricercato per copioni difficili, personaggi complessi e solo
pochi registi riuscirono a renderlo sullo schermo. Nel suo primo film “Il mio
corpo mi appartiene” (The Men), 1950, interpretò un veterano di guerra che perde
l’uso delle gambe e deve lottare quotidianamente per tornare a camminare.
Naturalmente non poteva reincarnare il suo successo teatrale in “Un tram che si
chiama desiderio” (A Streetcar Named Desire), 1952, alla cui regia fu Elia
Kazan, altro maestro dell’Actor’s Studio, film che ebbe un grandissimo successo
commerciale e di premi. Il personaggio di Stanley Kowalski rimase sempre
impresso nella sua memoria, tanto alla fine da odiarlo, forse perché oltre il
film ne aveva fatte tante di quelle repliche da dire: “Kowalski aveva sempre
ragione, non aveva mai paura…Non si interrogava mai, non era mai dubbioso. Il
suo Io era estremamente sicuro. E aveva quel genere brutale di aggressività che
io detesto…Tutto ciò mi fa paura: Detesto quel personaggio”. Stanley infatti era
una figura troppo materialista per un uomo come Brando, che forse a prima vista
poteva anche somigliare per durezza a quel personaggio, ma ne era completamente
l’opposto. Dunque il capolavoro recitativo dell’attore consisteva proprio in
questo che lo odia e ne aveva paura allo stesso tempo così da far nascere in lui
un vero Stanley Kowalski. Sempre con Kazan alla regia, nel 1952 in “Viva Zapata!”
indossa i panni del rivoluzionario Emiliano Zapata, nel 1953 è un ribelle in
motocicletta, forse la parte che in quel momento più gli calzava a pennello, in
“Il selvaggio” (The Wild One), grande successo di pubblico e acclamazione anche
per il modo in cui vestiva. Una parte bellissima sul profilo recitativo gli fu
affidata in “Fronte del porto” (On the Waterfront) nel 1954, ambientato nel
porto di New York è la storia di un ex pugile, Terry Malone, tradito dal suo
stesso fratello, cerca un lavoro onesto, ma si troverà davanti datori di lavori
senza scrupoli. La sua recitazione qui affonda ancor di più nel metodo, mostra i
lati psicologici e umani del personaggio a tratti violento a tratti incerto con
momenti comici nel suo modo di agire. Piacque tantissimo al pubblico che ne
rimase molto affezionato a questo personaggio e l’Academy lo premiò giustamente
con un Oscar. Marlon però dopo questo film volle cambiare atteggiamento, la
gente credeva in lui come un uomo auto motivato in un mondo motivato dagli
altri, ma lui non volle più recitare quel suo Io che gli proveniva dal suo primo
successo teatrale, ora voleva dare nuova vita al suo personaggio immedesimandosi
in altri personaggi e dal 1954 iniziò questo esperimento che lo vide nei panni
di Napoleone in “Desirèe”, nel giocatore Damon Runyon in “Bulli e pupe” (Guys
and Dolls), 1955, Sakini in “La casa da tè alla luna d’agosto” (The Teahouse of
the August Moon), 1956, il maggiore americano in Giappone “Sayonara”, 1957, nel
soldato tedesco in “I giovani leoni” (The Young Lions), 1958, nel western “I due
volti della vendetta” (One Eyed Jacks), 1961, qui persino regista dopo che
Stanley Kubrick aveva abbandonato il suo posto, Christian Fletcher ne “Gli
Ammutinati del Bounty” (Mutiny on the Bounty), 1962.
Ruoli che lo resero famoso, ma tanti rischi corse, perché questi titoli non
sempre avevano quel successo planetario richiesto dai produttori. Brando
rischiava grosso quando faceva questi film, chiedeva la cifra esorbitante di 1
milione di dollari, la quale veniva subito riguadagnata al box-office, ma non
gli piaceva la pubblicità, non era un uomo di marketing, scappava ogni volta lo
si voleva intervistare e come disse il regista italiano Gillo Pontecorvo
avendolo come protagonista in “Queimada!”, 1969: “E’ la prima volta che vedo un
attore così terrorizzato dalla macchina da presa”. Ma Marlon aveva capito
com’era la vita, quali atteggiamenti prendere nel privato, nel pubblico e sul
set accanto ai registi. Disse una volta: “Viene il momento nella vita di ogni
attore in cui egli non ha voglia di recitare; sa già che nella scena che lo
aspetta dovrà piangere e urlare e così via e questo lo annoia, lo estrania da se
stesso…e non vorrebbe farlo…ma sarebbe una mancanza di dignità non cercare di
fare il proprio meglio”. E se il compenso era troppo per le sue interpretazioni
diceva: “…è un modo perfettamente legittimo di guadagnarsi da vivere. Non rubi a
nessuno e diverti la gente”.
Un film su tutti lo mise dietro la macchina da presa “I due volti della
vendetta” e Hollywood lo scoprì anche come regista impegnato, abile nel saper
costruire le scene tanto quanto un regista di esperienza. Forse lo avrebbe
voluto in questa veste per altri film, ma era Brando e non si concedeva se lui
stesso non voleva. Quando invece realizzò “L’Ammutinamento del Bounty” si
scontrò contro la Mgm, all’epoca in declino economico che su questo film aveva
posto tutte le speranze di vita. Il film andò male, la produzione accusò
l’attore di aver fatto aumentare le spese di dieci volte la somma stimata e
tutto ciò che andò male compresa la sceneggiatura fu attribuita a lui la colpa.
Così Marlon tirò fuori di sé tutta la sua rabbia e fece un’interpretazione
ancor’oggi impeccabile nella quale la storia del Bounty passò in secondo luogo,
perché il protagonista si immedesimò talmente bene nel personaggio che ne
divenne la biografia di Christian Fletcher.
Negli anni Sessanta le interpretazioni iniziarono a declinare, i soggetti erano
scarsi, fu protagonista “Missione in Oriente” (The Ugly American), nel 1963, nel
1966 ne “La caccia” (The Chase), diretto da Charlie Chaplin con Sophia Loren in
“La contessa di Hong Kong” (A Countess From Hong Kong), nel 1967 e diretto da
John Huston in “Riflessi in un occhio d’oro” (Reflections in a Golden Eyes), del
1967. Fu l’inizio degli anni Settanta a ridare dignità a quest’attore, grazie al
regista Francis Ford Coppola che gli affidò la parte del boss Don Vito Corleone
ne “Il Padrino” (The Godfather), 1972. Qui fu perfetto, aiutato da una buona
sceneggiatura, riuscì a combinare attraverso l’abile uso del trucco che lo
invecchio ulteriormente e la voce rauca ne fecero un simbolo del cinema. A
seguire ogni film fu un evento mediatico, ma non risucì più a rimettersi in
gioco come ne “Il Padrino”, sotto la direzioni di Bernardo Bertolucci affrontò
“Ultimo tango a Parigi”, ma valse più lo scandalo della censura che per la sua
interpretazione. Forse dopo quest’opera pensò di essere finito come attore,
affrontò psicologi, analisti e il suo corpo iniziò a ingrassarsi, mangiava torte
di cioccolata e non badava più alla linea. Ancora una volta nel 1979, il regista
Coppola lo chiamò nel film “Apocalypse Now” nella parte del colonnello Kurtz. Si
rilancia nuovamente come attore interpreta questo soggetto a meraviglia non è
Brando in quel momento ma è il monumento di Kurtz, e tutta una nuova generazione
di pubblico lo conosce e lo rivaluta.
Ma gli anni per la star passarono, anche i decenni e così gli anni Ottanta e
Novanta lo videro in film di poco conto rispetto a quello che riuscì ad
interpretare nel passato, ogni piccola o breve apparizione sullo schermo, però,
era pagata con degli assegni elevatissimi; ogni regista lo voleva per il suo
film; ogni attore lo desiderava accanto.
Così il mito di Marlon Brando prosegue ancor’oggi, molti attori fanno a gara per
poterlo imitare, tentando di rassomigliargli, cercando di interpretarlo, ma
nessuno po’ più farlo o riuscirci perché il suo stile provocatorio, drammatico e
ironico di recitare ne divenne un simbolo della cultura americana e quei
personaggi da lui interpretati sono oggi il manifesto di un cinema che ormai non
c’è più.
G.R.
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