Attore di prima scelta della Warner Bros, grazie ad
alcune delle migliori interpretazioni della sua carriera, divenne ben presto
un divo applaudito e una star commemorata ancor’oggi perché considerato da
molti il miglior attore degli anni Trenta.
Il suo vero nome era Muni Wiesenfreund, nato in Polonia nel 1885, in una
zona che all’epoca faceva parte dell’Austria. Iniziò giovanissimo a
frequentare lo “Yiddish Art Theatre” di Maurice Schwarz, nel quale
recitavano tra gli altri Clelia e Luther Adler, Madame Jacobe Ben-Ami e Lee
Strasberg, che diventerà in seguito il fondatore dell’Actor’s Studio. Subito
interpretò ad appena 31 anni una pièce in inglese dal titolo “We Americans”,
grande successo a Broadway e strepitoso successo per il giovane attore che
fu immediatamente notato a Hollywood.
Muni, forse di carattere ancora timido e perfezionatore della sua
recitazione, desistette dall’accettare l’invito e declinò in un’attesa lunga
ben tre anni.
Così nel 1929 decise di andare nella capitale del cinema e sfidare questo
nuovo mondo, ma, appena, arrivato ebbe a pentirsene poiché i due lavori
commissionati: “The Valiant” e “Sette volti” (Seven Faces) entrambi del
1929, non gli piacquero affatto, era privo di soddisfazione.
E pensare che appena arrivato a Hollywood e appena al suo primo film “The
Valiant” già aveva ottenuto una candidatura all’Oscar. Ma egli scrisse un
articolo apparso sul “Film Weekly” del 3 maggio del 1935 dal titolo “Sono un
evaso da Hollywood” nel quale affermò: “Dopo aver visto il film, ne rimasi,
a dir poco, impressionato. Fui così colpito nell’osservare me stesso sullo
schermo, che avrei desiderato abbandonare Hollywood una volta per tutte e
non lo feci solo perché firmando il contratto per “The Valiant” avevo
accettato di interpretare un secondo film”. Per questo secondo film gli fu
data l’etichetta di ‘nuovo Lon Chaney’, poiché aveva usato il trucco sua
maschera alla maniera del grande attore dei film muti degli anni Venti.
Questa prima esperienza cinematografica, fu significativa sia per lui che
per la moglie e manager Bella, i quali decisero di andare più cauti
nell’accettare proposte a Hollywood, decidere meglio la strategia e
soprattutto permettere all’attore di ottenere parti di maggior prestigio.
Sotto contratto della Universal, Muni fu ingaggiato per recitare la parte di
Al Capone in “Scarface” nel 1932, ottenendo finalmente un successo
planetario e diventando quello che il destino avrebbe voluto, una star di
Hollywood a sette carati. La parte del violento gangster americano forse non
era proprio adatta a lui, che aveva un carattere opposto, austero e
intellettuale, ma proprio per questa differenza il soggetto riuscì alla
perfezione.
A seguire fu messo sotto contratto della Warner (che a quel tempo non si
faceva sfuggire nulla, specie un attore di spicco come Muni), così fu la
volta di “Io sono un evaso” (I Am a Fugitive from a Chain Gang). Questo
secondo l’attore è la sua miglior performance della sua carriera, era per
quel tempo un film duro, che trattava il tema carcerario come denuncia in
una America che non conosceva ancora i diritti dei carcerati. L’attore
interpretò la parte con molta disinvoltura, commuovendo intere platee di
tutto il mondo, grazie anche ad una storia che fu scritta in maniera molto
efficace.
Ottenuto il successo che meritava, l’attore chiese agli studios di poter
intervenire sul copione, l’idea che dovesse fare tutto secondo degli schemi
impartiti dai produttori lo preoccupava, scrisse ancora in quell’articolo
sopra citato: “La prospettiva di divenire un robot che recitava agli ordini
dello studio, mi faceva orrore. Così ad esempio quando il regista William
Dieterle lo chiamò ad interpretare “La vita del dottor Pasteur” (The Story
of Louis Pasteur), 1936, Muni influì sulle scelte della Warner per quanto
riguardava il cast e la sceneggiatura. Questo film ebbe un successo
inaspettato di pubblico e di critica, riceve ben 3 Oscar importanti, tra cui
uno proprio a Muni per la splendida interpretazione del dottor Pasteur.
Iniziò così una collaborazione tra l’attore e il regista Dieterle che ebbe a
dichiarare una volta: “Abbiamo le stesse idee in fatto di cinema, e cioè che
un film dovrebbe essere qualcosa di più di un semplice divertimento, perché
vi è un vasto pubblico assetato di film che contengano u n significato”. Da
qui si capisce come diedero vita ad altre due biografie: “Emilio Zola” (The
Life of Emile Zola), 1937, in particolare si metteva in luce il rapporto tra
Zola e il caso Dreyfus, e “Il conquistatore del Messico” (Juarez), 1939,
meno riuscito rispetto ai due precedenti, ma con un’altra grande
interpretazione di Muni.
Gli anni Quaranta si presentarono per l’attore meno prolifici, i soggetti
scarseggiavano per il suo stile di recitazione e dunque la carriera ben
presto si arenò con una serie di film di poco valore, benché l’attore
dimostrasse sul set grande professionismo e grande serietà. Benché ebbe
molti elogi, nel corso degli anni si tentò di svalutare la sua opera
artistica, ma forse quello che scrisse Bette Davis nella sua biografia “The
Lonely Life” spiega al meglio come considerarlo ancora oggi: “Giudicavo Paul
un uomo molto attraente, ma evidentemente egli non era del mio stesso
avviso, poiché di solito amava nascondersi dietro una barba…comunque non vi
è alcun dubbio che la sua tecnica d’attore fosse eccellente. Ma, secondo me,
oltre alla raffinatezza con cui curava certi minimi dettagli, la mancanza di
una completa padronanza di se stesso contribuiva a privare di vigore alcune
sue caratterizzazioni. È una critica, questa, che sono solita fare agli
attori della recitazione spontanea. L’intelligenza di Paul era sempre
attiva: egli combatté la battaglia così come la riteneva giusta e contribuì
alla dignità e alla rispettabilità di Hollywood”.
G.R.
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