Grazie ad uno stile magico riuscì a far brillare i musical più di ogni altro, a rendere indimenticabili i melodrammi usando colori, costumi e scenari fantasiosi e passionali, fu un grande regista hollywoodiano e maestro di raffinato stile.
Quando Vincente Minnelli nacque nel 1903, il suo vero nome era Lester Anthony Minnelli, la sua famiglia era di origini italiane, da parte del padre (i bisnonni paterni si trasferirono negli Stati Uniti dalla Sicilia) e franco canadese da parte della madre, fu figlio d'arte. Il padre, Vincent Charles Minnelli, dirigeva il “Minnelli Brothers' Tent Theatre” e piccolo Vincente entrò nel mondo dello spettacolo già all'età di tre anni.
Abile disegnatore si spinse ad iniziare questa carriera come disegnatore di costumi e decoratore, ma non disdegna anche di fare la regia come assistente. Fu nominato direttore del Radio City Music Hall di New York nel 1933 e debuttò a Broadway lavorando sullo spettacolo “Ziegfeld Follies”.
Fu sempre attento alle nuove tendenze della moda, ma anche dedito all’arte e allo studio della letteratura, permettendogli di stare un passo sopra tutte le concorrenze di quel tempo e facendolo poi approdare alla rivista e al musical. Quando dal teatro fu chiamato al cinema ebbe il ruolo di produttore alla Paramount, un’esperienza che Vincente stesso dichiarò infelice: la casa di produzione non voleva finanziare il tipo di musical che lui avrebbe voluto fare. Arthur Freed, produttore della Metro-Goldwyn-Mayer, invece cercava un innovatore e aveva molto capitale da investire, e così chiamò Minnelli alla sua corte. Con l’appoggio del produttore il regista mise in piedi una serie di musical che a quel tempo furono definiti rivoluzionari: i numeri musicali per la prima volta si integravano perfettamente con la trama e l’intreccio della storia. Fu enorme il successo nel 1944 per “Incontriamoci a Saint Louis” (Meet Me in St Louis) dove le canzoni sembrano nascere dalle stesse battute degli attori. Temi insoliti venivano trattati in questi film come l’inconscio in “Jolanda e il re della samba” (Yolanda and the Thief) del 1945, l’umorismo parodiato della cappa e spada in “Il Pirata” (The Pirate), l’arte moderna in “Un americano a Parigi” (An American in Paris) del 1951, il mondo della prostituzione in “Gigi” (id.) del 1958. A questo stile si doveva aggiungere una ricerca viva sullo sviluppo della moda e dell’architettura d’interni, unito poi all’uso del Technicolor, sempre caldo e dai toni raffinati accompagnato dagli spostamenti di macchina da presa dati dalla sapiente mano di Minnelli. Il regista portava i musical al cinema, sapeva fino a quel momento solo lui quando girava di sperimentare una nuova potenzialità musicale e tecnologica cinematografica.
Quando Minnelli girò “Incontriamoci a San Louis”, l’attrice protagonista era Judy Garland, la quale sposò nel 1945 e nel 1946 ebbero la loro unica figlia Liza. Il regista e l’attrice girarono altri film di successo come nel 1945 “The Clock”, “Il pirata”, nel 1946 alcuni episodi di “Ziegfield Follies” (id.) e “Nuvole passeggere” (Till the Clouds Roll By) dello stesso anno. E così dal genere musicale Minnelli passò a quello melodrammatico senza alcun cedimento narrativo, anche perché i due generi si somigliavano nella struttura: eccetto l’uno l’uso delle canzoni, l’altro solo di musiche forti e melodrammatiche. In questo nuovo genere Minnelli si trovava particolarmente a proprio agio, riusciva ad esplorare le esperienze umane immedesimando i suoi protagonisti sempre all’interno di ambienti borghesi e di provincia come accadde per “Tragico segreto” (Undercurrent) del 1946, “Qualcuno verrà” (Some Came Running) del 1958, “A casa dopo l’uragano” (Home From the Hill) del 1959 dove si connotano situazioni di vita familiare tese, rapporti difficili tra genitori e figli, sorelle e fratelli o conflitti di sessi. Interessante la raffigurazione in due grandi opere dell’ambiente cinematografico americano in “Il bruto e la bella” (The Bad and the Beautiful) del 1952 e quello di Cinecittà in “Due settimane in un'altra città” (Two Weeks in Another Town) del 1962, ma anche della clinica psichiatrica de “La tela del ragno” (The Cobweb) e del college maschile in “Tè e simpatia” (Tea and Sympathy) del 1956. Ma altrettanto interessante il lavoro svolto nel 1948 per trarre dal romanzo di Flaubert il film “Madame Bovary” (id.) nel quale riuscì a mettere in scena forti psicologie col dramma della storia.
Questi due generi, il musical e il melodrammatico, hanno offuscato un altro genere di Minnelli in cui era molto bravo: il comico. “Il padre della sposa” (Father of the Bride) del 1950 ottenne un successo di pubblico internazionale eccezionale tanto da spingere la Mgm a fargli fare il seguito con “Papà diventa nonno” (Father’s Little Dividend) del 1951, imperniando queste storie sempre sugli aspetti della vita familiare americana.
Altri film del genere ebbero successo come nel 1953 “Dodici metri d’amore” (The Long Long Trailer), “La donna del destino) (Designing Woman) del 1957 e anche “Come sposare una figlia” (The Reluctant Debutante) del 1958. Ma forse il film più comico della sua carriera il regista lo firmo con “Una fidanzata per papà” (The Courtship of Eddie’s Father) dove un ragazzo deve trovare moglie al padre vedovo.
Sempre a suo agio nella Mgm, Minnelli portò a termine un grande capolavoro biografico “Brama di vivere” (Lust for Life) del 1956 in cui mise in scena la vita del pittore Van Gogh con un magnifico uso del colore. Nel 1964 passò alla 20th Century Fox e girò un altro film comico “Ciao, Charlie” (Goodbye Charlie), poi nel 1965 con la coppia Richard Burton Liz Taylor girò “Castelli di sabbia” (The Sandpiper), ma il successo non lo accompagnò più, neppure la critica lo tratto bene e la sua bravura di ottimo cineasta declinò col il passare del tempo. In ogni film Minnelli aveva messo una caratteristica quella del sogno rincorso, la possibilità di modificare il proprio mondo, alle volte troppo squallido e quotidiano, ma non sempre i suoi personaggi, pur ingannando se stessi sono riusciti a tirarsi fuori dalla realtà nella quale erano stati immersi. Così anche la sessualità per il regista era cosa importante, per lui il ruolo della donna e dell’uomo non erano naturali, ma sociali, quindi illusioni, ed era per questo che spesso si vedono nei suoi personaggi con virilità (“Il pirata”) e femminilità parodiate (“Uno straniero tra gli angeli” (Kismet) del 1955). Alcune volte la virilità era oggetto di conquista, ma poi di pentimento come in “Tè e simpatia” o “A casa dopo l’uragano”, oppure era un elemento inconciliabile dove l’uomo deve scegliere la vergine o la prostituta come in “Qualcuno verrà” o la svampita bionda o la ragazza ricca in “Una fidanzata per papà”. Dunque, se si escludono i film con la Garland, tutti gli altri non esprimono una donna a tutto tondo, le donne non vengono mai viste come esseri completi. A questi caratteri si aggiungano personaggi spostati come giovanotti effeminati come John Kerr in “Tè e simpatia”, George Hamilton in “A casa dopo l’uragano” e “Due settimane in un'altra città”, e donne indipendenti come Judy Garland, Lauren Bacall , Lucille Ball e Judy Holliday.
Quando metteva in scena le sue opere, il regista si ispirava ai colori dei grandi pittori del passato come Van Gogh, Thomas Eakins, artisti francesi come Dufy, Renoir, Toulouse-Lautrec, Rosseau, ma ciò nonostante venne accusato di essere volgare e velleitario, ma anche snobista e pretenzioso, mentre il suo stile valeva molto più di queste futili critiche: egli era inedito nel suo modo di concepire le cose, originale nel proporle e raffinato nel raccontarle. Usava i movimenti della macchina da presa, i colori, le scenografie e le musiche come un artista usa il pennello per esprimere le proprie emozioni.
G.R.
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